Responsabilità per attività pericolosa: definizione

Cass. Civ. Sent. 27-03-2019, n. 8449

Siccome tutte le attività umane contengono in sé un grado più o meno elevato di pericolosità per coloro che le esercitano, si deve distinguere tra pericolosità della condotta e pericolosità dell’attività in sé considerata, e ciò in quanto la prima riguarda un’attività normalmente innocua, che assume i caratteri della pericolosità a causa della condotta imprudente o negligente dell’operatore, ed è elemento costitutivo della responsabilità ex art. 2043 c.c., mentre la seconda riguarda un’attività che, invece, è potenzialmente dannosa di per sé, per l’alta percentuale di danni che può provocare in ragione della sua natura o della natura dei mezzi adoperati ed è una componente della responsabilità indicata dall’art. 2050 stesso codice.

Poichè tutte le attività umane contengono in sè un grado più o meno elevato di pericolosità per coloro che le esercitano, si deve sempre operare una netta distinzione tra pericolosità della condotta e pericolosità dell’attività in sè considerata”, e ciò in quanto la prima “riguarda un’attività normalmente innocua, che assume i caratteri della pericolosità a causa della condotta imprudente o negligente dell’operatore, ed è elemento costitutivo della responsabilità ex art. 2043 c.c.”, mentre la seconda “riguarda un’attività che, invece, è potenzialmente dannosa di per sè per l’alta percentuale di danni che può provocare in ragione della sua natura o della natura dei mezzi adoperati ed è una componente della responsabilità indicata dall’art. 2050 stesso codice” (così, in motivazione, Cass. Sez. 3, sent. 21 ottobre 2005, n. 20357, Rv. 584514-01).

D’altra parte, costituisce principio pacifico nella giurisprudenza di questa Corte che dalle “attività pericolose, che per loro stessa natura od anche per i mezzi impiegati rendono probabile e non semplicemente possibile il verificarsi di un evento dannoso e che importano responsabilità ex 2050 c.c., devono essere tenute distinte quelle normalmente innocue, che possono diventare pericolose per la condotta di chi le esercita e che comportano responsabilità secondo la regola generale dell’art. 2043 c.c.”, soggiungendosi che “il giudizio di pericolosità deve essere espresso non già sulla base dell’evento dannoso, effettivamente verificatosi, sebbene secondo una prognosi postuma, che il giudice deve compiere sia facendo uso delle nozioni della comune esperienza, sia in relazione alle circostanze di fatto che si presentavano al momento dell’esercizio dell’attività e che erano conosciute o conoscibili dall’agente in considerazione del tipo di attività esercitata” (così, in motivazione, Cass. Sez. 3, sent. 15 ottobre 2004, n. 20334, Rv. 577728-01). Del pari, ricorrente – nella giurisprudenza di questa Corte – è l’affermazione secondo cui “la valutazione in concreto se un’attività, non espressamente qualificata pericolosa da una disposizione di legge, possa essere considerata tale per la sua natura o la spiccata potenzialità offensiva dei mezzi adoperati, implica un accertamento di fatto” che è “rimesso in via esclusiva al giudice di merito, la cui valutazione è insindacabile in sede di legittimità ove correttamente e logicamente motivata” (così, da ultimo, Cass. Sez. 3, sent. 20 maggio 2015, Rv. 635443 – 01; in senso analogo già Cass. Sez. 3, sent. n. 20334 del 2004, cit.; nonchè Cass. Sez. 3, sent. 17 gennaio 2007, n. 1195, Rv. 595635-01).

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