La prova del danno da perdita del rapporto parentale

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Cass. Civ. Ord. 07/09/2023, n. 2614

Il nostro ordinamento prevede che in caso di morte di un individuo causata da un fatto illecito di un terzo, i parenti della vittima abbiano diritto a un risarcimento per il dolore subito e per i cambiamenti nel loro stile di vita, a seguito della perdita irreversibile del legame familiare con il defunto. Questo tipo di risarcimento mira a indennizzare il familiare per il danno subito su due fronti: uno morale, relativo alla sofferenza emotiva causata dalla perdita del legame familiare, e uno relazionale, per i  significativi cambiamenti nelle abitudini di vita che possono durare per tutta la vita dell’individuo colpito.

Nel caso di richiesta di risarcimento per la perdita del legame familiare, se la parte interessata non può fornire una prova diretta del danno, potrà ricorrere a presunzioni, ad esperienze comuni e notorie, considerando la natura e l’intensità dei legami affettivi e le conseguenze della situazione. Sarà quindi compito del giudice verificare, sulla base delle prove raccolte, se sussistono effettivamente le voci di danno precedentemente descritte: il dolore emotivo soggettivo causato dalla perdita del familiare, e gli impatti dinamico-relazionali sulla vita quotidiana dell’individuo colpito.

Ciò posto, occorre richiamare i più recenti principi elaborati da questa Corte in tema di danno da perdita del rapporto parentale (cfr. Cass. n. 25541 del 2022, Cass. n. 26301 del 2021 e n. 28989 del 2019).

Come noto, a fronte della morte di un soggetto causata da un fatto illecito di un terzo, il nostro ordinamento riconosce ai parenti del danneggiato un risarcimento iure proprio, di carattere patrimoniale e non patrimoniale, per la sofferenza patita e per le modificate consuetudini di vita, in conseguenza dell’irreversibile venir meno del godimento del rapporto parentale con il congiunto. Tale forma risarcitoria intende ristorare il familiare del pregiudizio subito sotto il duplice profilo, morale, consistente nella sofferenza psichica che questi è costretto a sopportare a causa dell’impossibilità di proseguire il proprio rapporto di comunanza familiare, e relazionale, inteso come significativa modificazione delle abitudini di vita – destinate, a volte, ad accompagnare l’intera esistenza del soggetto che l’ha subita.

Quanto alla prova del danno, non v’è dubbio che, in linea generale, spetti alla vittima dell’illecito altrui dimostrare i fatti costitutivi della propria pretesa e, dunque, l’esistenza del pregiudizio subito: onere di allegazione che potrà essere soddisfatto anche ricorrendo a presunzioni semplici e massime di comune esperienza (Cass. s.u. 26792/2008, cit.).

Ebbene, nel caso di morte di un prossimo congiunto (coniuge, genitore, figlio, fratello), è orientamento unanime di questa Corte (Cass. n. 11212 del 2019; n. 31950 del 2018; n. 12146 del 14 giugno 2016) che l’esistenza stessa del rapporto di parentela faccia presumere, secondo l’id quod plerumque accidit, la sofferenza del familiare superstite, giacchè tale conseguenza è, per comune esperienza, connaturale all’essere umano. Naturalmente, trattandosi di una praesumptio hominis, sarà sempre possibile per il convenuto dedurre e provare l’esistenza di circostanze concrete dimostrative dell’assenza di un legame affettivo tra vittima e superstite (Cass. n. 3767 del 2018).

Più in generale, in caso di risarcimento del danno da perdita del rapporto parentale, ferma la possibilità per la parte interessata di fornire la prova di tale danno con ricorso alle presunzioni, alle massime di comune esperienza, al notorio, con riferimento alla realtà ed alla intensità dei rapporti affettivi e alla gravità delle ricadute della condotta (cfr. Sez. 3, Ordinanza n. 11212 del 24/04/2019, Rv. 653591 – 01), spetterà al giudice il compito di procedere alla verifica, sulla base delle evidenze probatorie complessivamente acquisite, dell’eventuale sussistenza di uno solo, o di entrambi, i profili di danno non patrimoniale in precedenza descritti (ossia, della sofferenza eventualmente patita, sul piano morale soggettivo, nel momento in cui la perdita del congiunto è percepita nel proprio vissuto interiore, e quella, viceversa, che eventualmente si sia riflessa, in termini dinamico-relazionali, sui percorsi della vita quotidiana del soggetto che l’ha subita).

In tale quadro emergerà il significato e il valore dimostrativo dei meccanismi presuntivi che, al fine di apprezzare la gravità o l’entità effettiva del danno, richiamano il dato della maggiore o minore prossimità formale del legame parentale (coniuge, convivente, figlio, genitore, sorella, fratello, nipote, ascendente, zio, cugino) secondo una progressione che, se da un lato, trova un limite ragionevole (sul piano presuntivo e salva la prova contraria) nell’ambito delle tradizionali figure parentali nominate, dall’altro non può che rimanere aperta, di volta in volta, alla libera dimostrazione della qualità di rapporti e legami parentali che, benchè di più lontana configurazione formale (o financo di assente configurazione formale: si pensi, a mero titolo di esempio, all’eventuale intenso rapporto affettivo che abbia a consolidarsi nel tempo con i figli del coniuge o del convivente), si qualifichino (ove rigorosamente dimostrati) per la loro consistente e apprezzabile dimensione affettiva e/o relazionale.

Così come ragionevole apparirà la considerazione, in via presuntiva, della gravità del danno in rapporto alla sopravvivenza di altri congiunti o, al contrario, al venir meno dell’intero nucleo familiare del danneggiato; ovvero, ancora, dell’effettiva convivenza o meno del congiunto colpito con il danneggiato (cfr., in tema di rapporto tra nonno e nipote, Cass. n. 21230 e n. 12146 del 2016), o, infine, di ogni altra evenienza o circostanza della vita – come l’età della vittima, l’età dei superstiti (e la correlata eventuale presenza di famiglie autonome), il grado di parentela, le abitudini ed il grado rapporto di frequentazione (e, in particolare, le visite quotidiane e le vacanze trascorse insieme), i pranzi domenicali e festivi ed i momenti celebrativi passati insieme, l’eventuale abitazione in immobili contigui, il ruolo in concreto svolto dal de cuius nelle dinamiche della storia familiare dei parenti superstiti (tenuto anche conto del loro modello di famiglia di riferimento), gli eventuali atti di liberalità – che il prudente apprezzamento del giudice di merito sarà in grado di cogliere.

3.3. Tali principi hanno trovato conferma nella motivazione della sentenza di cui a Cass. n. 28989 del 2019 (che richiama sua volta quelli già espressi in Cass. nn. 901, 7513 e 23469 del 2018), collocata all’interno del cd. “progetto sanità” della terza sezione civile della Corte di legittimità, ove si afferma che, in tema di danno non patrimoniale, se costituisce duplicazione risarcitoria la congiunta attribuzione di un risarcimento per danno biologico (o per danno parentale) e per danno cd. esistenziale, non costituisce, per converso, duplicazione risarcitoria la congiunta attribuzione del risarcimento per danno morale e per danno da perdita del rapporto parentale inteso nel suo aspetto dinamico-relazionale.

3.4. Rimangono, in ogni caso, fermi i principi (affermati da Cass. n. 21060 del 2016 e n. 16992 del 2015) che presiedono all’identificazione delle condizioni di apprezzabilità minima del danno, nel senso di una rigorosa dimostrazione (come detto, anche in via presuntiva) della gravità e della serietà del pregiudizio e della sofferenza patita dal danneggiato, tanto sul piano morale-soggettivo, quanto su quello dinamico-relazionale, senza che tale serietà e apprezzabilità, peraltro, sconfini necessariamente in un vero e proprio radicale ed eccezionale sconvolgimento delle proprie abitudini di vita, che inciderà, se del caso, sulla personalizzazione del risarcimento, e che costituisce a sua volta onere dell’attore allegare e provare, in modo circostanziato, non potendo risolversi in mere enunciazioni generiche, astratte od ipotetiche.

Come d’altronde rimane altresì ferma la netta distinzione (affermata ad es. da Cass. n. 21084 del 2015) tra il descritto danno da perdita, o lesione, del rapporto parentale e l’eventuale danno biologico che detta perdita o lesione abbiano ulteriormente cagionato al danneggiato, atteso che la morte di un prossimo congiunto può causare nei familiari superstiti, oltre al danno parentale, consistente nella perdita del rapporto e nella correlata sofferenza soggettiva, anche un danno biologico vero e proprio, in presenza di una effettiva compromissione dello stato di salute fisica o psichica di chi lo invoca (Corte Cost. 372/1994), l’uno e l’altro dovendo essere oggetto di separata considerazione come elementi del danno non patrimoniale, ma nondimeno suscettibili – in virtù del principio della cd. “onnicomprensività” della liquidazione – di liquidazione finale unitaria.

3.5. Lo scrutinio del motivo non può dirsi esaurito perchè, trattandosi nella specie di danno da perdita di rapporto parentale, il Collegio intende dare continuità:

– sia al principio di diritto affermato da Cass. n. 10579 del 2021, in base al quale: “al fine di garantire non solo un’adeguata valutazione delle circostanze del caso concreto, ma anche l’uniformità di giudizio a fronte di casi analoghi, il danno da perdita del rapporto parentale deve essere liquidato seguendo una tabella basata sul sistema a punti, che preveda, oltre l’adozione del criterio a punto, l’estrazione del valore medio del punto dai precedenti, la modularità e l’elencazione delle circostanze di fatto rilevanti, tra le quali, da indicare come indefettibili, l’età della vittima, l’età del superstite, il grado di parentela e la convivenza, nonchè l’indicazione dei relativi punteggi, con la possibilità di applicare sull’importo finale dei correttivi in ragione della particolarità della situazione, salvo che l’eccezionalità del caso non imponga, fornendone adeguata motivazione, una liquidazione del danno senza fare ricorso a tale tabella”;

– sia ai principi di diritto affermati da Cass. n. 33005 del 2021, in base ai quali: a) “ai fini della liquidazione del danno non patrimoniale mediante il criterio tabellare il danneggiato ha esclusivamente l’onere di fare istanza di applicazione del detto criterio, spettando poi al giudice di merito di liquidare il danno non patrimoniale mediante una tabella conforme a diritto”; b) “al fine di garantire non solo un’adeguata valutazione delle circostanze del caso concreto, ma anche l’uniformità di giudizio a fronte di casi analoghi, il danno da perdita del rapporto parentale deve essere liquidato seguendo una tabella basata sul sistema a punti, che preveda, oltre l’adozione del criterio a punto, l’estrazione del valore medio del punto dai precedenti, la modularità e l’elencazione delle circostanze di fatto rilevanti, tra le quali, da indicare come indefettibili, l’età della vittima, l’età del superstite, il grado di parentela e la convivenza, nonchè l’indicazione dei relativi punteggi, con la possibilità di applicare sull’importo finale dei correttivi in ragione della particolarità della situazione, salvo che l’eccezionalità del caso non imponga, fornendone adeguata motivazione, una liquidazione del danno senza fare ricorso a tale tabella.

4. I suddetti principi non sono stati applicati dalla corte territoriale nella parte in cui (p. 8 e ss.) ha erroneamente ricondotto il danno al solo “stravolgimento della vita” (vicenda che, come osservato in precedenza, può viceversa costituire, in considerazione della sua eccezionalità, motivo di personalizzazione del danno) ed ha omesso il richiamo alle necessarie e doverose presunzioni da cui avrebbe potuto trarre la prova dei danni morali subiti dagli odierni ricorrenti: in altri termini, va qui censurata l’apodittica ed aprioristica limitazione del danno risarcibile dei A.E. (connesso solo allo stravolgimento della vita ed al patimento immediatamente percepibile) ed il conseguente omesso ricorso alle presunzioni.

Sotto altro profilo la corte territoriale è incorsa in motivazione insanabilmente contraddittoria:

– sia nel punto in cui – dopo aver affermato (p. 12) che “…nel caso in esame negli atti difensivi di primo grado manca finanche l’allegazione in ordine alla sofferenza patita e al differente e specifico cambiamento di vita in capo agli attori…” – ha aggiunto – “…nella memoria ex art. 183 c.p.c., comma 6, n. 1, ove si fa riferimento “….all’improvvisa perdita dello zio, che a pochi anni di distanza dal padre ha determinato per gli istanti un vuoto incolmabile atteso che è venuto a mancare l’ultima figura di riferimento della famiglia d’origine nonchè un vuoto costituito dal non poter più godere della presenza e del rapporto con chi è venuto meno…””;

-sia nel punto in cui – dopo aver affermato che (p. 13): “… le prove orali richieste dalla parte attrice hanno avuto ad oggetto il tema dell’intensità del rapporto parentale, ma non hanno sortito esito positivo…” – ha subito dopo precisato che “…le dichiarazioni testimoniali rese da A.F. e A.G….appaiono del tutto generiche… avendo riferito solo di un “generico stretto rapporto””.

In definitiva, dalla lettura della sentenza emerge una insanabile contraddizione logica laddove la Corte di Appello di Napoli: da un lato asserisce la mancanza di allegazione della “sofferenza patita” e dall’altro richiama, in un successivo passaggio, le note ex art. 183 c.p.c., comma 6, ritualmente depositate, in cui vi è proprio l’allegazione precedentemente richiesta; dal’altro, sostiene che erano stati articolati dei capi di prova tesi ad evidenziare “l’intensità del rapporto parentale” e, dall’altro ancora, ha ritenuto non provato il legame ed il vincolo affettivo di particolare intensità sebbene i testi abbiano confermato le circostanze indicate nei capi, che erano stati ammessi sul presupposto della loro rilevanza.

La motivazione della sentenza impugnata, in conclusione, si presenta inficiata da insanabili contraddizioni e, in quanto tale, si presta ad essere censurata da questa Corte alla luce del principio di diritto per cui, anche nel vigente sistema processuale, la ricostruzione del fatto operata dai giudici di merito non è sindacabile in sede di legittimità salvo che la motivazione manchi del tutto, ovvero sia stata articolata su espressioni od argomenti tra loro manifestamente ed immediatamente inconciliabili, oppure perplessi od obiettivamente incomprensibili (tra le altre, Cass. n. 12928 del 2014), ferma restando l’irrilevanza del semplice difetto di “sufficienza” della motivazione (Cass. n. 21257 del 2014; Cass., sez. un., n. 1241 del 2015; Cass. n. 13928 del 2015).

Occorre qui ribadire che, ai sensi della nuova formulazione dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 – applicabile alle sentenze pubblicate dopo l’11 settembre 2012 e dunque anche alla pronuncia impugnata con il ricorso in esame – il controllo sulla motivazione può investire l’anomalia motivazionale ogni qual volta questa si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante, come per l’appunto avviene anche nel caso di “contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili” e di “motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile” (Cass. Sez. U. nn. 8053 e 8054 del 2014).”

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