Danno in via equitativa: deve essere dimostrato

Cass. Civ. Sent. 22-02-2018, n. 4310

L’esercizio del potere discrezionale di liquidare il danno in via equitativa, conferito al giudice dagli artt. 1226 e 2056 c.c., espressione del più generale potere di cui all’art. 115 c.p.c., dà luogo non già ad un giudizio di equità, ma ad un giudizio di diritto caratterizzato dalla cosiddetta equità giudiziale correttiva od integrativa, che, pertanto, da un lato è subordinato alla condizione che risulti obiettivamente impossibile, o particolarmente difficile per la parte interessata, provare il danno nel suo preciso ammontare, dall’altro non ricomprende anche l’accertamento del pregiudizio della cui liquidazione si tratta, presupponendo già assolto l’onere della parte di dimostrare la sussistenza e l’entità materiale del danno, né esonera la parte stessa dal fornire gli elementi probatori e i dati di fatto dei quali possa ragionevolmente disporre, affinché l’apprezzamento equitativo sia per quanto possibile, ricondotto alla sua funzione di colmare solo le lacune insuperabili nell’iter della determinazione dell’equivalente pecuniario del danno.

1. Con l’unica censura posta a corredo del ricorso il P. denunzia la violazione o falsa applicazione degli artt. 1453, 1223 e 1226 c.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3.

Secondo l’assunto impugnatorio il danno emergente, quanto all’ammontare di 113.750 Euro, oltre IVA, pur riscontrato dal solo preventivo della s.r.l. Progeca, costituiva la spesa sostenuta, resa inutile dall’inadempimento della controparte, con la conseguenza che “il solo fatto che si sia dimostrato in causa che parte attrice ebbe a dare incarico alla Progeca s.r.l. l’attività di progettazione, quantificata e confermata in udienza nella somma (predetta), avallata dalla documentazione attestante l’avvenuta redazione e consegna della progettazione da parte della Progeca s.r.l., giustifica la domanda”. Quanto all’importo di 360 Euro, oltre IVA, speso per opere di ricerca degli scarichi, la Corte d’appello nulla aveva osservato. Il lucro cessare, costituito dalla differenza fra costi e ricavi stimati, non era stato affatto indicato genericamente, costituendo la sua determinazione in 1.582.150 Euro il frutto di un analitico studio, a suo tempo effettuato dalla Progeca e allegato all’atto di citazione, nè contestato, nè sottoposto al vaglio di un CTU. Inoltre, osserva il ricorrente, le dichiarazioni provenienti da appaltatori e relative ai lavori da effettuarsi, non avrebbero potuto liquidarsi come irrilevanti, perchè provenienti da terzi, contestate e non confermate da prove testimoniali, poichè il Tribunale aveva rigettato la prova orale chiesta a convalidazione e la Corte d’appello, motivando nel senso avversato, aveva impedito il diritto alla prova.

Peraltro, anche ad ammettere la difficoltà dimostrativa, il danno avrebbe dovuto essere quantificato in via equitativa.

1.1. Il motivo è infondato.

La denunziata violazione delle norme giuridiche sopra indicate risulta un evidente escamotage al fine di addivenire ad una rivalutazione degli apprezzamenti di merito, in questa sede non censurabili.

La pretesa risarcitoria risulta essere stata disattesa dalla Corte locale in quanto priva di apprezzabile concretezza; quindi, attraverso argomento che rende non pertinente l’osservazione censuratoria (pretesa lesione del diritto alla prova per testi). Senza contare che il ricorrente non si perita neppure di allegare di aver richiesto in sede d’appello prova orale idonea ad infrangere il riferito apprezzamento.

Passando ad una analisi di dettaglio deve chiarirsi, quanto alla pretesa di risarcimento per danno emergente, che la sentenza impugnata ha spiegato che la produzione di un documento dal quale risultava che la ditta PROGECA aveva offerto per il prezzo indicato le proprie prestazioni non dimostrava affatto che fosse stato versato l’indicato corrispettivo; affermazione questa confermata dalle dichiarazioni del legale rappresentante della predetta impresa, il quale si era limitato a riferire di due riunioni, senza che fossero state acclarate le circostanze utili a dimostrare l’asserto del P.. Il rimborso, poi, di dedotte spese per ricerca degli scarichi si fonda su circostanze non deducibili in sede di legittimità: assume il ricorrente che la prova era da rinvenirsi nei documenti prodotti in primo grado, ma di tali documenti, in violazione del principio di autosufficienza, nulla è dato qui sapere; nè, come si è anticipato, consta che il P. abbia richiesto al Giudice d’appello prova per testi.

Quanto alla esposizione di un lucro cessante, quantificato in quasi un milione e seicentomila Euro, l’evanescenza della prospettazione non consente di assegnare fondamento alla critica. Invero, il ricorrente si è limitato ad ipotizzare che a fronte di un prevedibile investimento ammonante a quasi tremilioni e trecentomila euro era auspicabile un incasso di quasi quattromilioni e ottocentomila euro. Senza che consti essere stata allegata la effettiva e concreta capacità del P. di affrontare un tale investimento e l’altrettanto effettiva e concreta prospettiva d’incasso.

Nè, appare contestabile che le dichiarazioni sottoscritte dai terzi che avrebbero dovuto partecipare all’operazione quali appaltatori, non asseverate da deposizioni testimoniali, non potevano assumere valore probatorio.

Si è, infatti, di recente (Sez. n. 24976, 23/10/2017, Rv. 645941) ribadito che le dichiarazioni scritte, provenienti da terzi estranei alla lite su fatti rilevanti, non possono esplicare efficacia probatoria nel giudizio se non siano convalidate attraverso la testimonianza ammessa ed assunta nei modi di legge ma possono unicamente assumere valore d’indizio, l’utilizzazione del quale costituisce non già un obbligo del giudice del merito, bensì una facoltà, il cui mancato esercizio non può formare oggetto di utile censura in sede di legittimità, sia sotto il profilo della violazione dell’art. 115 c.p.c., sia sotto quello dell’omesso esame su punto decisivo della controversia.

Infine, deve soggiungersi che la richiesta di liquidazione in via equitativa è inammissibile, trattandosi di domanda nuova, peraltro, comunque non proponibile, avendo la parte scelto la via della dimostrazione del danno effettivo.

Nè può tacersi che l’esercizio del potere discrezionale di liquidare il danno in via equitativa, conferito al giudice dagli artt. 1226 e 2056 c.c., espressione del più generale potere di cui all’art. 115 c.p.c., dà luogo non già ad un giudizio di equità, ma ad un giudizio di diritto caratterizzato dalla cosiddetta equità giudiziale correttiva od integrativa, che, pertanto, da un lato è subordinato alla condizione che risulti obiettivamente impossibile, o particolarmente difficile per la parte interessata, provare il danno nel suo preciso ammontare, dall’altro non ricomprende anche l’accertamento del pregiudizio della cui liquidazione si tratta, presupponendo già assolto l’onere della parte di dimostrare la sussistenza e l’entità materiale del danno, nè esonera la parte stessa dal fornire gli elementi probatori e i dati di fatto dei quali possa ragionevolmente disporre, affinchè l’apprezzamento equitativo sia per quanto possibile, ricondotto alla sua funzione di colmare solo le lacune insuperabili nell’iter della determinazione dell’equivalente pecuniario del danno (Sez. 2, n. 13288, 07/06/2007, Rv. 597885; Sez. 6-L, n. 27447, 19/12/2011, Rv. 619916; Sez. 3, n. 20990, 12/1/2011, Rv. 620130; Sez. 3, n. 10607, 30/4/2010, Rv. 612765).

2. Occorre, ora, passare all’esame del ricorso incidentale.

2.1. Con il primo ed il secondo motivo viene dedotta omessa motivazione, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 5, su un punto controverso e decisivo.

La eccezione del P., fatta valere in appello, secondo la quale egli non era tenuto a prestare la garanzia fideiussoria ai sensi del D.Lgs. n. 122 del 2005, era nuova e come tale contestata dagli esponenti e, tuttavia, la Corte torinese non si era pronunciata sulla controdeduzione. Il P. aveva introdotto domanda nuova richiedendo in appello il pagamento dell’IVA sul richiesto danno emergente. In ogni caso, la Corte d’appello non aveva preso in esame l’inadempimento della controparte per non essere stata stipulata la garanzia fideiussoria.

2.1.1. La doglianza è manifestamente destituita di giuridico fondamento.

Il punto concernente la fideiussione risulta essere stato esaminato dalla sentenza d’appello, la quale, appunto, escludendo, all’evidenza, la novità della deduzione del P., aveva ritenuto che l’obbligo di prestare la fideiussione trovasse fondamento nel contratto e non nella disciplina dettata dal D.Lgs. n. 122 del 2005.

In ordine all’IVA, essendo stata la domanda di risarcimento del P. stata rigettata, i controricorrenti difettano d’interesse.

Nel resto, l’allegata omissione non sussiste affatto: la sentenza impugnata, infatti, ha a fondo spiegato le ragioni per le quali era da escludersi l’inadempimento colpevole del P. per l’omessa consegna della fideiussione (pagg. 32-35); ragioni che i ricorrenti incidentali non paiono cogliere.

2.2. Con il terzo motivo si allega ulteriore omissione di motivazione su un punto controverso e decisivo, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 5, assumendosi che il Giudice di seconde cure non aveva esaminato la questione riguardante l’allegato difetto di legittimazione attiva e di assenza di titolarità del rapporto, pur essendo stato fatto rilevare che risultava dagli atti che il P. aveva agito in giudizio in proprio, al fine di chiedere il risarcimento del danno da lucro cessante, nonostante avesse affermato di aver ceduto alla società Isoedilizia i diritti nascenti dal contratto.

2.2.1. Anche in questo caso la doglianza non coglie nel segno.

I ricorrenti ripropongono, incuranti della motivazione resa dalla Corte di Torino (pagg. 31-32), l’eccezione di carenza di legittimazione del P. in ordine alla domanda risarcitoria da costui avanzata. Il punto è stato esaminato in sentenza e pertanto la doglianza è inammissibile. Anche in questo caso il rigetto della domanda di risarcimento del P. rende, peraltro, la censura priva d’interesse.

2.3. Con il quarto motivo i controricorrenti denunziano la violazione o falsa applicazione degli artt. 1175, 1375, 1460 e 1337 c.c., nonchè omessa motivazione in punto di inadempimento del P..

Con la censura in esame in primo luogo si critica la decisione di non considerare nullo il contratto per indeterminatezza dell’oggetto, nonostante non fosse stato previamente individuato dalle parti quale prezzo avrebbe dovuto versare il P., ove non avesse inteso assegnare una parte dell’edificato in controvalore.

In secondo luogo si afferma che non era stato adeguatamente vagliato l’inadempimento della controparte, la quale avrebbe dovuto mettere a disposizione dei controricorrenti la fideiussione contestualmente all’atto traslativo, al quale non si potette dare corso proprio a cagione di tale omissione. Pertanto, la Corte locale aveva errato nel considerare la prestazione della garanzia successiva al trasferimento.

In terzo luogo ingiustamente era stato escluso che il P. avesse violato i doveri di buona fede discendenti dagli artt. 1175 e 1375 c.c., così giustificando la eccezione d’inadempimento ex art. 1460 c.c.. Al fine di sostenere l’assunto i controricorrenti elencano una lunga serie di comportamenti della controparte, attraverso i quali costui avrebbe violato l’invocato canone, costituenti proposta di numerose modifiche ed integrazioni dei patti e inducendo la controparte ad introdurre nella scrittura espressioni e termini di significato perlomeno equivoco.

2.3.1. Il motivo è inammissibile.

Attraverso l’articolazione di una critica complessa e multipla i controricorrenti, sotto l’usbergo della denunziata violazione di legge, anche in questo caso, in definitiva, propongono una lettura delle risultanze istruttorie a loro favorevole.

In dettaglio. Deve escludersi che la sentenza abbia violato gli artt. 1360, 1175, 1375, 1460 e 1337 c.c., per non avere reputato indeterminato l’oggetto del contratto preliminare. Sul punto, invero, la Corte locale spende precipua riflessione (pagg. 29-31) fondata sull’esame dello strumento negoziale, costituente precipua attività di merito, che la porta ad escludere l’asserto (l’individuazione della volumetria era il massimo di specificità possibile al momento della stipula; il riferimento allo “stato locativo” delle unità altro non poteva significare che la consegna d’immobili completamente rifiniti e pienamente utilizzabili).

Non è ammissibile la denunzia del vizio di omessa motivazione sull’inadempimento in quanto, a parte ogni altra considerazione (l’asserto risulta essere stato motivatamente disatteso), a mente dell’art. 360 c.p.c., n. 5, può censurarsi l’omesso esame di fatti (siano essi primari, che secondari) posti a fondamento della pretesa, nel mentre la valutazione come inadempienti di determinate condotte è frutto d’incensurabile valutazione di merito.

Non può avere miglior fortuna la dedotta violazione del canone della buona fede negoziale. In disparte della novità della censura, devesi rilevare che la contestata violazione non sussiste. Lungi, infatti, dal potersi constatare una erronea sussunzione dei fatti assunti come rilevanti, devesi osservare che la sentenza impugnata, valutate le emergenze probatorie, ha ritenuto di assegnare prevalenza all’inadempimento dei promittenti alienanti (pag. 35 e ss.). In ogni caso, non può farsi a meno di soggiungere che la congerie delle condotte addebitate al P. sarebbero sorrette da riferimenti documentali non esaminabili in questa sede poichè non riportati in ricorso e solo sommariamente indicati (cfr. ex multis, Sez. 6-3, n. 16134, 30/7/2015, Rv., 636483).

2.4. Con il quinto motivo, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3, si allega la violazione o falsa applicazione dell’art. 1362 c.c., in merito al ritenuto inadempimento dei controricorrenti.

La Corte torinese, secondo l’assunto, male aveva fatto a ritenere che tutti i controricorrenti fossero obbligati per l’intero fondo promesso in vendita, anche se trattavasi di distinte proprietà limitrofe (una in capo allo Z. e l’altra alle C. e S.), con la conseguenza che non potevano essere giudicati tutti inadempienti, stante che il capannone occupato dalla Vetreria Gialdi era collocato all’interno dello stacco di proprietà dello Z.. Inoltre, l’inadempimento in parola non sussisteva: lo Z. aveva diligentemente chiesto il rilascio dell’immobile e il P. era stato informato della liberazione dello stesso il 26/5/2008, in tempo utile per l’avvio dei lavori, il cui permesso sarebbe venuto a scadere il 5/6/2008, senza contare che il P. aveva immotivatamente tergiversato nel far luogo alle attività propedeutiche per l’avvio della costruzione.

2.4.1. Il motivo ripropone, ancora una volta, una inammissibile lettura delle emergenze di causa. La Corte locale ha, interpretando il contratto, affermato che “La violazione del termine di cui al contratto 2007 è indiscutibile da parte di tutte le parti appellate, ciascuna per i beni di proprietà rispettiva e altrui, sicchè tutte sono responsabili del ritardo”. La censura è, quindi, inammissibile.

2.5. Con il sesto motivo viene denunziata la violazione di una non meglio precisata norma di diritto, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3, per non essere stata accolta la domanda di risarcimento del danno, fondata sul comportamento della controparte, che aveva dato vita ad un contratto nullo per indeterminatezza dell’oggetto, aveva violato le regole di buona fede negoziale, aveva inadempiuto le proprie obbligazioni.

2.5.1. L’evanescente censura, la quale neppure individua quale sia la norma che assume violata, è, all’evidenza, assorbita dall’addebito della risoluzione in capo ai controricorrenti.

image_printStampa