Locazione: determinazione del canone in misura crescente

Cass. Civ. 13-11-2018, n. 29016

Per effetto della libera determinazione del canone locativo per gli immobili destinati ad uso diverso da abitazione, è legittima la clausola con cui si convenga una determinazione del canone in misura differenziata, crescente per frazioni successive di tempo nell’arco del rapporto, purché ancorata ad elementi certi e predeterminati (idonei ad influire sull’equilibrio economico del sinallagma contrattuale e del tutto indipendenti dalle eventuali variazioni annuali del potere di acquisto della moneta), e sempre che non risulti una sottostante volontà delle parti volta in realtà a perseguire surrettiziamente lo scopo di neutralizzare esclusivamente gli effetti della svalutazione monetaria, e ad eludere pertanto i limiti quantitativi posti dall’art. 32, della legge c.d. “sull’equo canone”, incorrendo conseguentemente nella sanzione di nullità prevista dal successivo art. 79 l. loc.

Come le Sezioni Unite di questa Corte hanno avuto modo di affermare in tema di locazione immobiliare ad uso diverso da abitazione, è nullo il patto con il quale le parti di un contratto di locazione di immobili ad uso non abitativo concordino occultamente un canone superiore a quello dichiarato; tale nullità vitiatur sed non vitiat, con la conseguenza che il solo patto di maggiorazione del canone è insanabilmente nullo, a prescindere dall’avvenuta registrazione (v. Cass. Sez. Un., 9/10/2017, n. 23601. E, conformemente, Cass., 2/3/2018, n. 4922).

Orbene, nella specie, in presenza di un contratto di locazione ad uso diverso da abitazione dall’odierna ricorrente originariamente stipulato con il locatore sig. C.G., la corte di merito ha nell’impugnata sentenza invero disatteso il suindicato principio.

In particolare là dove, dopo avere dato atto che nella specie “il locatore sin dall’inizio della locazione, e, in particolare, sin dal 16-6-98, aveva chiesto ed ottenuto dalla stessa conduttrice un canone di Lire 4.000.000 pari ad Euro 2.065,82”, ha affermato essere “noto… che il canone di locazione relativo ad immobili ad uso commerciale è nella disponibilità delle parti, che possono liberamente concordarlo”, sicchè la “pattuizione, sin dall’inizio del rapporto, di un canone maggiore di quello indicato in contratto non incorre… nella sanzione di nullità di cui alla L. n. 392 del 1978, art. 79, invocato dalla conduttrice”, non vertendosi “in ipotesi di aumento di canone nel corso del rapporto”.

Ancora, là dove ha aggiunto che nemmeno “la pattuizione orale di un canone maggiore di quello risultante dal contratto registrato incorre nella nullità stabilita dalla L. 30 dicembre 2004, n. 311, trattandosi di fatti anteriori all’entrata in vigore della richiamata legge finanziaria”.

Con particolare riferimento a quest’ultimo aspetto, va osservato come risponda a principio consolidato nella giurisprudenza di legittimità che, per effetto della libera determinazione convenzionale del canone locativo per gli immobili destinati ad uso diverso da abitazione, sia legittima la clausola con cui si convenga una determinazione del canone in misura differenziata, crescente per frazioni successive di tempo nell’arco del rapporto, purchè ancorata ad elementi certi e predeterminati (idonei ad influire sull’equilibrio economico del sinallagma contrattuale e del tutto indipendenti dalle eventuali variazioni annuali del potere di acquisto della moneta), e sempre che non risulti una sottostante volontà delle parti volta in realtà a perseguire surrettiziamente lo scopo di neutralizzare esclusivamente gli effetti della svalutazione monetaria, e ad eludere pertanto i limiti quantitativi posti dall’art. 32, della legge c.d. “sull’equo canone”, incorrendo conseguentemente nella sanzione di nullità prevista dal successivo art. 79 l. loc. (v. in particolare Cass., 5/3/2009, n. 5349. Cfr. altresì Cass., 24/3/2015, n. 5849).

Orbene, nella specie la pattuizione de qua si appalesa in effetti volta a perseguire proprio siffatta vietata finalità, unitamente a quella di risparmio fiscale per il locatore.

Con particolare riferimento alla “finalità fiscale” dell’operazione negoziale nella specie posta in essere dalle parti, va posto in rilievo come questa Corte abbia già avuto modo di osservare (con riferimento ad analoga pattuizione, relativa a contratto di locazione ad uso abitativo: v. Cass., 3/1/2014, n. 37), che ai fini della relativa interpretazione decisivo rilievo assume la sua natura “sostanziale”, della quale sicuro indice rivelatore è anche la causa concreta del negozio, altro e diverso dal contratto scritto e già registrato, dalle parti coevamente (ma anche successivamente o financo anteriormente) stipulato.

In quanto contemplante un canone superiore rispetto all’importo a tale titolo indicato nel contratto scritto e registrato, tale patto risulta in realtà funzionalmente volto a realizzare il risultato di garantire al locatore di ritrarre dal concesso godimento dell’immobile un reddito superiore rispetto a quello assoggettato ad imposta (nel caso, di registro).

Esso costituisce allora lo strumento dal locatore piegato al conseguimento di un risparmio d’imposta.

La causa concreta di tale patto consente tuttavia di disvelare siffatta finalità di elusione fiscale, deponendo per la conseguente relativa nullità.

Siffatto patto non può infatti riconoscersi come valido ed efficace, impingendo nella violazione dell’interesse pubblicistico sotteso alla norma fiscale elusa (v. Cass., 5/8/2016, n. 16604).

Come questa Corte, anche a Sezioni Unite, ha (in diverse fattispecie ma) in termini generali avuto modo di affermare, la norma tutelante interessi pubblicistici si profila per ciò stesso come imperativa ed inderogabile, non soltanto nei rapporti tra P.A. e privato (cfr. Cass., Sez. Un., 17/6/1996, n. 5520) ma anche nei rapporti tra privati (v. Cass., Sez. Un., 17/12/1984, n. 6600. V. altresì Cass., 17/12/1993, n. 12495, e, in tema di locazioni, Cass., 4/2/1992, n. 1155. Contra v. peraltro Cass., 22/3/2004, n. 5672; Cass., 20/3/1985, n. 2034. V. anche Cass., 15/12/2003, n. 19190, e, in tema di locazioni, Cass., 17/12/1985, n. 7412, nonchè, da ultimo, Cass., Sez. Un., 17/9/2015, n. 18219).

Gli interessi pubblicistici sono infatti indisponibili da parte dei privati, cui non può ritenersi concesso di vanificarli mediante l’adozione di schemi negoziali idonei a pervenire in concreto ad un risultato corrispondente a quello vietato dal legislatore (cfr., Cass., 7/10/2008, n. 24769).

A tale stregua, ricostruendo la vicenda in argomento (come affermato dalla corte di merito nell’impugnata decisione e ammesso anche dallo stesso locatore nei propri scritti difensivi) in termini di pattuizione complessa volta a perseguire e realizzare un’elusione fiscale a vantaggio del locatore, l’operazione simulatoria (il contratto di locazione e la “pattuizione orale di un canone maggiore di quello risultante dal contratto registrato”) posta in essere dalle parti emerge con tutta evidenza nella sua intima realtà di strumento negoziale funzionalmente volto ad eludere i diritti di terzi, e in particolare del Fisco.

In considerazione dello scopo pratico dalle parti (e in particolare di una di esse, il locatore) con tale stipulazione appunto perseguito, e pertanto della relativa causa concreta (causa concreta che come questa Corte ha già avuto modo di affermare si sostanzia nell’interesse o scopo pratico anche tacitamente obiettivato che l’operazione contrattuale è specificamente diretta a soddisfare: per l’accoglimento della teoria della causa concreta, con superamento del tradizionale orientamento che ravvisava nella causa l’astratta funzione economico sociale del contratto, v. Cass., Sez. Un., 11/11/2008, n. 26973; Cass., 7/10/2008, n. 24769; Cass., 24/4/2008, n. 10651; Cass., 20/12/2007, n. 26958; Cass., 11/6/2007, n. 13580; Cass., 22/8/2007, n. 17844; Cass., 24/7/2007, n. 16315; Cass., 27/7/2006, n. 17145; Cass., 8/5/2006, n. 10490; Cass., 14/11/2005, n. 22932; Cass., 26/10/2005, n. 20816; Cass., 21/10/2005, n. 20398. V. altresì Cass., 7/5/1998, n. 4612; Cass., 16/10/1995, n. 10805; Cass., 6/8/1997, n. 7266; Cass., 3/6/1993, n. 3800. Più recentemente v. Cass., 25/2/2009, n. 4501; Cass., 12/11/2009, n. 23941; Cass., Sez. Un., 18/2/2010, n. 3947; Cass., 18/3/2010, n. 6538; Cass., 1/4/2011, n. 7557. E, da ultimo, Cass., 29/9/2015, n. 19220; Cass., 26/8/2015, n. 17115; Cass., 28/1/2015, n. 1625; Cass., 14/1/2015, n. 405; Cass., 3/4/2013, n. 8100; Cass., 8/2/2012, n. 1875; Cass., 10/01/2012, n. 75), essa si rivela come imprescindibilmente connotata dalla vietata finalità di elusione fiscale, e pertanto conseguentemente affetta da invalidità.

Finalità che si pone in contrasto con il generale principio antielusivo desumibile già dall’art. 53 Cost. (cfr., con riferimento alla relativa tutela mediante il ricorso alla figura dell’abuso del diritto, Cass., 9/3/2011, n. 5583; Cass., Sez. Un., 23/12/2008, n. 30055; Cass., 21/4/2008, n. 10257; Cass., 29/9/2006, n. 21221, ove si sottolinea che in tal caso non è nemmeno in defettibilmente necessario farsi luogo all’accertamento della simulazione o del carattere fraudolento dell’operazione, assumendo al riguardo piuttosto decisivo rilievo la valutazione della sua intima essenza, non potendo al riguardo influire ragioni economiche meramente marginali o teoriche, inidonee a fornire una spiegazione alternativa dell’operazione rispetto al mero risparmio fiscale, come tali quindi manifestamente inattendibili o assolutamente irrilevanti rispetto a tale finalità), e pertanto anche anteriormente all’emanazione della richiamata L. n. 311 del 2004 illecita.

Il negozio posto in essere al fine di realizzare la vietata finalità di evasione o elusione fiscale non può dunque sotto plurimi profili (continuare a) ritenersi ammissibile e lecito (cfr. Cass., 5/8/2016, n. 16604).

E’ al riguardo altresì da porsi in rilievo come rispetto alla maggiore tassazione del singolo contratto faccia invero premio l’esigenza di porre in essere una disciplina che proprio in ragione della sua indefettibile applicazione risulti idonea a rendere le parti contrattuali avvertite dell’imprescindibilità dell’assolvimento dell’obbligo fiscale su di esse incombente (v. Cass., 5/8/2016, n. 16604).

A tale stregua, l’imposta dovuta va allora senz’altro determinata con riferimento all’importo del canone indicato nel contratto scritto e registrato, e al locatore non è comunque consentito percepire legittimamente un canone maggiore di quello (originariamente) assoggettato ad imposta.

Ne consegue che, a parte quanto già più sopra osservato in ordine alla possibilità per le parti di originaria determinazione del canone in misura differenziata e crescente per frazioni successive di tempo nell’arco del rapporto ovvero con variazione in aumento in relazione ad eventi oggettivi predeterminati (cfr., da ultimo, Cass., 28/7/2013, n. 19802), solamente in caso di successivo nuovo accordo, novativo rispetto al precedente contratto scritto e registrato, risulta per le parti possibile modificare il precedente assetto negoziale, con conseguente relativo assoggettamento alla corrispondente imposizione fiscale.

In tal caso deve peraltro trattarsi non già come nella specie di una soluzione costituente mero escamotage per realizzare una finalità di elusione fiscale, bensì di una contrattazione rispondente alla volontà delle parti rivelata dalla relativa causa concreta, non sostanziantesi nel mero risparmio d’imposta (cfr. Cass., 5/8/2016, n. 16604).

Assorbito ogni altro e diverso profilo, e dichiarati inammissibili gli altri motivi (con i quali la ricorrente denunzia “omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione” su punti decisivi della controversia, in riferimento all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, dolendosi che con motivazione insufficiente e contraddittoria la corte di merito abbia affermato che “trattandosi di locazione ad uso diverso, le parti ben potevano accordarsi liberamente in ordine al canone e quindi ben potevano accordarsi liberamente in ordine al canone e quindi convenire con la “controdichiarazione” senza data un canone di Lire 4.000.000 in luogo di Lire 1.200.000 come invece previsto nel contratto iniziale”; lamentando non essersi dalla corte di merito riconosciuta “la dovuta e decisiva importanza all’ulteriore circostanza pur rilevata (peraltro pacifica e provata dalla allegazione degli assegni bancari) che a distanza di un anno dalla data del contratto di locazione (16.6.98), e dalla stessa controdichiarazione (qualora la si voglia ritenere presuntivamente intervenuta contestualmente al predetto contratto, come si sostiene nell’impugnata sentenza) il canone effettivamente pagato dalla società conduttrice, precisamente a partire dal 16.6.99, era stato non già di Lire 4.000.000, ma di Lire 3.000.000 e tanto non per qualche mese soltanto, ma addirittura fino al maggio 2006, quindi per ben sette anni”; dolendosi, ancora, non essersi dalla corte di merito tenuto conto che “a partire dal 16.6.99 era intervenuto un nuovo accordo che prevedeva una riduzione del canone mensile da Lire 4.000.000 a Lire 3.000.000; accordo da ritenersi perfettamente valido ed efficace in applicazione dello stesso principio richiamato dalla Corte della libera determinazione del canone vigente in materia di locazione ad uso diverso”, sicchè la corte di merito avrebbe dovuto conseguentemente “considerare affetta da nullità L. n. 392 del 1978, ex artt. 32 e 79, quanto meno la scrittura intervenuta tra le parti in data 13.6.2006 che prevedeva, senz’ombra di dubbio, nel corso del rapporto di locazione, un illegittimo aumento del canone mensile pagato dalla società conduttrice per ben sette anni da Lire 3.000.000 mensili (pari ad Euro 1.549,37) a Lire 4.000.000 (pari ad Euro 2.065,82)), in quanto: a) formulati in violazione dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, atteso che la ricorrente in realtà prospetta doglianze di vizio di motivazione al di là dei limiti consentiti dalla vigente formulazione dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, (v. Cass., Sez. Un., 7/4/2014, n. 8053), nel caso ratione temporis applicabile, sostanziatesi nel mero omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio che sia stato oggetto di discussione tra le parti, dovendo riguardare un fatto inteso nella sua accezione storico-fenomenica, e non anche come nella specie l’omesso, contradditorio e a fortiori erroneo esame di determinati elementi probatori (v. Cass., Sez. Un., 7/4/2014, n. 8053 e, conformemente, Cass., 29/9/2016, n. 19312); b) formulati in violazione dell’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6, atteso che la ricorrente pone a loro fondamento atti e documenti del giudizio di merito (es., il “nuovo accordo”, i “verbali d’udienza e menoria conclusionale pag. 12”, la “racc.ta a/r datata 01.12.2008”, le “note autorizzate alla pagine 15 e 16”, a “quanto dedotto alle pagine 15 e 16 dell’atto di appello”) limitandosi meramente a richiamarli, senza invero debitamente per la parte d’interesse in questa sede – riprodurli nel ricorso ovvero puntualmente indicare in quale sede processuale, pur individuati in ricorso, risultino prodotti, laddove è al riguardo necessario che si provveda anche alla relativa individuazione con riferimento alla sequenza dello svolgimento del processo inerente alla documentazione, come pervenuta alla Corte Suprema di Cassazione, al fine di renderne possibile l’esame (v. Cass., 16/3/2012, n. 4220), con precisazione (anche) dell’esatta collocazione nel fascicolo d’ufficio o in quello di parte, rispettivamente acquisito o prodotto in sede di giudizio di legittimità (v. Cass., 23/3/2010, n. 6937; Cass., 12/6/2008, n. 15808; Cass., 25/5/2007, n. 12239; Cass., 6/11/2012, n. 19157), la mancanza anche di una di tali indicazioni rendendo il ricorso inammissibile (cfr. Cass. Sez. Un., 19/4/2016, n. 7701), dell’impugnata sentenza s’impone pertanto la cassazione in relazione, con rinvio alla Corte d’Appello di Napoli, che in diversa composizione procederà a nuovo esame, facendo del suindicato disatteso principio applicazione.

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