Danno da perdita del rapporto parentale: la convivenza

Danno da perdita del rapporto parentale

Cass. Civ. Ord. 8218/2021

Sebbene occorra evitare il pericolo di una dilatazione ingiustificata dei soggetti danneggiati secondari, non può tuttavia condividersi l’affermazione per cui il dato esterno ed oggettivo della convivenza possa costituire elemento idoneo di discrimine e giustificare, quindi, l’aprioristica esclusione, nel caso di non sussistenza della convivenza, della possibilità di provare in concreto l’esistenza di rapporti costanti e caratterizzati da reciproco affetto e solidarietà con il familiare defunto.

Con l’unico motivo i ricorrenti denunciano, con riferimento all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, “violazione e/o falsa applicazione degli artt. 2, 29, 30, 31 e 32 Cost., in combinato disposto con gli artt. 1226, 2043 e 2059 c.c.”. Rilevano in sintesi l’erroneità della regola di giudizio applicata dal giudice a quo, in quanto ispirata a indirizzo giurisprudenziale respinto da diverse successive pronunce secondo le quali il dato esterno ed oggettivo della convivenza non costituisce elemento idoneo ad escludere a priori il diritto del non convivente al risarcimento del danno non patrimoniale da lesione del rapporto parentale.

La doglianza è fondata e merita accoglimento.

In fattispecie analoga – nella quale la Corte capitolina, anche allora richiamando il precedente di Cass. n. 4253 del 2012, aveva confermato il rigetto di domanda di risarcimento del danno da perdita del rapporto parentale dedotto dagli attori per la morte della nonna, in ragione del difetto del requisito della convivenza – questa Corte ha condivisibilmente rilevato (Cass. 28/10/2016, n. 21230) che, se da un lato, occorre certamente “evitare il pericolo di una dilatazione ingiustificata dei soggetti danneggiati secondari”, dall’altro non può tuttavia condividersi l’assunto che “il dato esterno ed oggettivo della convivenza” possa costituire elemento idoneo di discrimine e giustificare dunque l’aprioristica esclusione, nel caso di non sussistenza della convivenza, della possibilità di provare in concreto l’esistenza di rapporti costanti e caratterizzati da reciproco affetto e solidarietà con il familiare defunto.

A tanto detto successivo indirizzo è giunto specificamente confutando i fondamenti logico giuridici su cui l’opposto orientamento sostanzialmente si fondava, ovvero: da un lato la norma che tutela la famiglia quale società naturale; dall’altro, l’assunto della convivenza, “quale connotato minimo attraverso cui si esteriorizza l’intimità dei rapporti parentali, anche allargati, caratterizzati da reciproci vincoli affettivi, di pratica della solidarietà, di sostegno economico.

Sotto il primo profilo si è infatti rilevato che non è condivisibile limitare la “società naturale” della famiglia cui fa riferimento l’art. 29 Cost., all’ambito ristretto della sola cd. “famiglia nucleare”, incentrata su coniuge, genitori e figli. Sotto il secondo si è efficacemente obiettato che “ben possono ipotizzarsi convivenze non fondate su vincoli affettivi ma determinate da necessità economiche, egoismi o altro e non f convivenze determinate da esigenze di studio o di lavoro o non necessitate da bisogni assistenziali e di cura ma che non implicano, di per, sè, carenza di intensi rapporti affettivi o difetto di relazioni di reciproca solidarietà”.

La convivenza, piuttosto, escluso che possa “assurgere a connotato minimo attraverso cui si esteriorizza l’intimità dei rapporti parentali ovvero a presupposto dell’esistenza del diritto in parola”, “costituisce elemento probatorio utile, unitamente ad altri elementi, a dimostrare l’ampiezza e la profondità del vincolo affettivo che lega tra loro i parenti e a determinare anche il quantum debeatur.

Va da sé che ad evitare quanto già paventato da questa Corte (dilatazione ingiustificata dei soggetti danneggiati secondari e possibilità di prove compiacenti) è sufficiente che sia fornita la prova rigorosa degli elementi idonei a provare la lamentata lesione e l’entità dei danni (v. Cass. 22/10/2013, n. 23917; Cass. 21/01/2011, n. 1410) e che tale prova sia correttamente valutata dal giudice. Tali considerazioni hanno trovato piena conferma ancora di recente negli arresti di Cass. n. 29332 del 07/12/2017; Cass. n. 18069 del 10/07/2018; Cass. n. 7743 del 08/04/2020.

Sulla scia di tale più recente e qui condiviso orientamento va menzionato anche il precedente di Cass. 11/11/2019, n. 28989, il quale ricomprende anzi il legame parentale tra zio e nipote, di per sé e indipendentemente dalla effettiva convivenza (dato rilevante solo quale eventuale concorrente elemento presuntivo), tra le circostanze che possono giustificare “meccanismi presuntivi” utilizzabili “al fine di apprezzare la gravità o l’entità effettiva del danno”, attraverso “il dato della maggiore o minore prossimità formale del legame parentale (coniuge, convivente, figlio, genitore, sorella, fratello, nipote, ascendente, zio, cugino) secondo una progressione che, se da un lato, trova un limite ragionevole (sul piano presuntivo e salva la prova contraria) nell’ambito delle tradizionali figure parentali nominate, dall’altro non può che rimanere aperta alla libera dimostrazione della qualità di rapporti e legami parentali che, benché di più lontana configurazione formale (o financo di assente configurazione formale: si pensi, a mero titolo di esempio, all’eventuale intenso rapporto affettivo che abbia a consolidarsi nel tempo con i figli del coniuge o del convivente), si qualifichino (ove rigorosamente dimostrati) per la loro consistente e apprezzabile dimensione affettiva e/o esistenziale”.

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