Usucapione: possesso e detenzione

Cass. Civ. Ord., 03/07/2019, n. 17880

Al fine di stabilire se la relazione di fatto con il bene costituisca una situazione di possesso ovvero di semplice detenzione dovuta a mera tolleranza di chi potrebbe opporvisi (come tale inidonea, ai sensi dell’art. 1144 c.c., a fondare la domanda di usucapione) va attribuito valore di elemento presuntivo per escludere che vi sia stata tolleranza alla circostanza che l’attività svolta sul bene abbia avuto durata non transitoria e sia stata di non modesta entità.

Con il primo motivo il ricorrente deduce, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, che la corte d’appello, ingannata dal fatto che le parti in causa avevano prodotto contratti di locazione diversi, non aveva considerato che il contratto di locazione destinato a disciplinare il rapporto “consentiva al ricorrente l’uso esclusivo e illimitato della sala medica”.

Il motivo è inammissibile.

E’ ovvio che il ricorrente, sotto la veste della violazione di legge, pone una questione di fatto, rimproverando alla corte di avere applicato il contratto di locazione prodotto dalla struttura medica, che prevedeva una fruizione limitata nel tempo dei locali, invece di quello da lui prodotto, privo di tali limitazioni.

La decisione andava perciò censurata sotto questo profilo.

Ciò è fatto con il secondo motivo, con il quale il ricorrente denuncia omesso esame di un fatto decisivo, per avere la corte di merito applicato un contratto diverso da quello vigente.

Anche tale motivo è inammissibile.

La questione della esistenza di una pluralità di produzioni di scritture che prevedevano condizioni di utilizzo diverse non è minimamente affrontata dalla corte di merito, la cui decisione è fondata sulla considerazione, svincolata da uno specifico riferimento a una scrittura piuttosto che a un’altra, che la “struttura era dotata di regole di utilizzo e di orari, al rispetto dei quali il N. si era da sempre sottratto”.

In verità l’autentica censura che il ricorrente muove contro la decisione è la seguente: a) dal fatto che l’uso dei locali era avvenuta senza limitazioni la corte avrebbe dovuto dedurre che il rapporto trovava la sua disciplina nel contratto prodotto dal ricorrente; b) in ogni caso, “se anche il contratto vero fosse stato quello limitato”, le concrete modalità di utilizzazione della cosa da parte del N. facevano emergere “un possesso indeterminato e illimitato dei beni costituiti dallo studio medico”.

Erroneamente i giudici di merito avevano ricondotto siffatta illimitata utilizzazione alla nozione di tolleranza.

Ma in questi termini è chiaro che il ricorrente non deduce un “omesso esame” nel significato precisato da questa Corte (Cass., S.U., n. 8053/2014), dirigendosi la censura contro un apprezzamento demandato al giudice di merito.

Invero, diversamente da quanto sostiene il ricorrente, la durata non transitoria dell’attività di fatto è compatibile con la nozione di tolleranza non solo in presenza di un rapporto di parentela, ma anche di un rapporto di società.

“Al fine di stabilire se la relazione di fatto con il bene costituisca una situazione di possesso ovvero di semplice detenzione dovuta a mera tolleranza di chi potrebbe opporvisi, come tale inidonea, ai sensi dell’art. 1144 c.c., a fondare la domanda di usucapione, la circostanza che l’attività svolta sul bene abbia avuto durata non transitoria e sia stata di non modesta entità, cui normalmente può attribuirsi il valore di elemento presuntivo per escludere che vi sia stata tolleranza, è destinata a perdere tale efficacia nel caso in cui i rapporti tra le parti siano caratterizzati da vincoli particolari, quali quelli di parentela o di società, in forza di un apprezzamento di fatto demandato al giudice di merito (nel caso di specie, la S.C., in applicazione di tale principio, ha confermato la sentenza di merito che aveva escluso ogni efficacia presuntiva alla suddetta circostanza, con riferimento alla domanda di usucapione di un terreno che, durante il periodo interessato, era stato di proprietà di una società per azioni di cui l’attore era uno dei due soci)” (Cass. n. 9661/2006).

La valutazione della corte di merito, nella parte in cui ha applicato la nozione di tolleranza al rapporto fra il ricorrente e i soci e responsabili della struttura, è in linea con tale principio.

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