Responsabilità per trasfusione di sangue

Cass. Civ. Sez. III, Ord. 22-01-2019, n. 1567

Incorre in responsabilità contrattuale, imputabile anche alla struttura sanitaria, il medico che – in mancanza di una situazione di reale emergenza e senza informare adeguatamente il paziente del rischio obiettivo che tale pratica terapeutica presentava – abbia eseguito una trasfusione di sangue, non testato almeno per il virus dell’epatite B, a causa della quale il paziente abbia contratto il virus dell’AIDS.

La decisione sarebbe erronea per non aver tenuto conto che, al momento della somministrazione della trasfusione, non era previsto ancora un obbligo di acquisire il consenso informato del paziente e che, in ogni caso, non vi era un obbligo di acquisirlo in forma scritta.

Pertanto la Corte avrebbe dovuto accertare se il consenso era stato dato almeno in forma verbale.

Inoltre, la decisione sarebbe errata laddove ha escluso che vi fosse la prova della indispensabilità della trasfusione, senza considerare che non vi era alcun elemento per escludere una simile indispensabilità, con la conseguenza che la Corte avrebbe dovuto ritenere implicitamente prestato il consenso da parte dei genitori.

Infine, la sentenza sarebbe viziata anche nella parte in cui ha ritenuto che i genitori di Tr.An., se avessero conosciuto i rischi di contagio epatico, reputati contraddittoriamente di comune conoscenza, avrebbero negato il consenso alla trasfusione. I signori T. – G. non avrebbero fornito alcuna prova al riguardo.

Il ricorso è inammissibile e comunque infondato.

E’ inammissibile perchè – sul punto dell’esistenza, all’epoca dei fatti, di un dovere di acquisire il consenso informato del paziente – del tutto generico, limitandosi l’ente ricorrente a ribadire le difese svolte in appello, senza articolare specifiche censure dei precisi elementi posti alla base della decisione della Corte d’appello (le fonti normative del dovere preesistenti ai fatti, richiamati dalla giurisprudenza, la circostanza che sulla cartella clinica del T. fosse stampata apposita dicitura per l’acquisizione del consenso informato, non sottoscritta).

D’altra parte, non risulta che l’Assessorato abbia mai anche solo allegato (nè tantomeno provato, come sarebbe stato suo onere cfr. Cass. civ. Sez. 3, 13/10/2017, n. 24074), l’avvenuto adempimento di un simile dovere, neppure in forma orale.

Nuove, rispetto alla posizione assunta nel giudizio di primo grado (cfr. p. 2 ricorso e p. 1 sentenza di secondo grado), appaiono altresì le difese con le quali l’Assessorato invoca la scriminante dello stato di necessità e contesta la sussistenza del nesso causale tra il mancato consenso informato ed il contagio, per supposta mancanza di prova circa il fatto che, qualora informati, i genitori non avrebbero acconsentito alla trasfusione.

D’altra parte, correttamente la Corte d’appello, sulla base delle risultanze in atti (in particolare la cartella clinica ed il foglio di dimissioni del paziente), ha escluso che vi sia prova circa il fatto che la trasfusione fosse necessaria e fosse stata praticata in una situazione di emergenza (cfr. p. 10 sentenza di secondo grado).

Sul punto, il ricorrente si limita genericamente a sostenere che… “non vi era alcun elemento per escludere tale indispensabilità”, che “diversamente operando, si sarebbe corso il ben più maggiore rischio di mettere a repentaglio la vita del paziente”, che “la terapia trasfusionale rappresenta a tutt’oggi trattamento insostituibile nella cura di diverse gravi patologie ed in ambito chirurgico, cui si ricorre in casi di necessità e urgenza”, che il sanitario sarebbe sempre legittimato “ad effettuarla anche in mancanza di specifico consenso qualora ritenuta necessaria per la salvaguardia della salute del paziente”.

Alla luce della mancanza di prova circa la stessa necessarietà ed urgenza della trasfusione, appare priva di vizi la presunzione della Corte d’appello secondo cui, se i genitori fossero stati resi edotti della trasfusione che voleva praticarsi al figlio, avrebbero verosimilmente negato il consenso alla terapia.

Secondo la stessa giurisprudenza citata dall’Assessorato (peraltro relativa ad un caso di una trasfusione praticata in assenza di consenso informato nel 1984, ben prima dei fatti di causa) “incorre in responsabilità contrattuale, imputabile anche alla struttura sanitaria, il medico che – in mancanza di una situazione di reale emergenza e senza informare adeguatamente il paziente del rischio obiettivo che tale pratica terapeutica presentava – abbia eseguito una trasfusione di sangue, non testato almeno per il virus dell’epatite B, a causa della quale il paziente abbia contratto il virus dell’AIDS” (Cass. civ. Sez. 3, 20.4.2010, n. 9315).

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