Per usucapire non è sufficiente la coltivazione del fondo

Cass. Civ. Ord. 03-07-2018, n. 17376

Ai fini della prova degli elementi costitutivi dell’usucapione – il cui onere grava su chi invoca la fattispecie acquisitiva – la coltivazione del fondo non è sufficiente, in quanto, di per sé, non esprime, in modo inequivocabile, l’intento del coltivatore di possedere, occorrendo, invece, che tale attività materiale, corrispondente all’esercizio del diritto di proprietà, sia accompagnata da univoci indizi, i quali consentano di presumere che essa è svolta “uti dominus”.

Ad avviso del collegio esso si risolve, in effetti, in una critica nell’apprezzamento delle risultanze istruttorie compiute dalla Corte palermitana, la quale – proprio al fine di valutare la possibile sussistenza dei presupposti necessari del reclamato acquisto del diritto di proprietà ai sensi dell’art. 1158 c.c. – ha dato conto di aver esaustivamente considerato che, pur essendo rimasto univocamente acclarato che il S. fosse entrato nella disponibilità del fondo controverso a titolo di detentore in virtù dell’instaurazione di un rapporto agricolo con i proprietari (ancorchè non incontestatamente risultante dai pubblici uffici come riferibili anche ai terreni dedotti in giudizio), lo stesso non aveva offerto, in modo idoneo, la prova dell’esternazione, nei confronti dei medesimi titolari, della sua inequivoca volontà di trasformare la detenzione in possesso, nemmeno attraverso l’esercizio di concrete attività materiali dai proprietari stessi riconoscibili. Del resto è stato già condivisibilmente statuito da questa Corte (v., per tutte, Cass. n. 18215 del 2013) che, ai fini della prova degli elementi costitutivi dell’usucapione – il cui onere grava su chi invoca la fattispecie acquisitiva – la coltivazione del fondo non è sufficiente, in quanto, di per sè, non esprime, in modo inequivocabile, l’intento del coltivatore di possedere, occorrendo, invece, che tale attività materiale, corrispondente all’esercizio del diritto di proprietà, sia accompagnata da univoci indizi, i quali consentano di presumere che essa è svolta “uti dominus”.

Nella fattispecie, invero, la Corte territoriale ha congruamente argomentato sulla circostanza che i proprietari, nel corso dello svolgimento del rapporto agricolo, si erano in concreto interessati della gestione del fondo (anche mediante le emergenze scaturite dall’espletata prova orale) nonchè sull’insussistenza di comportamenti effettivamente concludenti (statuendo, con valutazione di fatto incensurabile in questa sede, sull’irrilevanza dell’appropriazione indebita – da parte dello stesso ricorrente – dei frutti del fondo da epoca anteriore al 1980, concretante piuttosto un abuso della sua posizione) e tali da palesare univocamente l’intenzione della trasformazione del titolo da detenzione in possesso.

In punto di diritto il giudice di appello si è, perciò, correttamente uniformato all’uniforme indirizzo giurisprudenziale di questa Corte secondo cui, in generale, la interversione della detenzione in possesso può avvenire anche attraverso il compimento di attività materiali a condizione che esse manifestino in modo inequivocabile e riconoscibile dall’avente diritto l’intenzione del detentore di esercitare il potere sulla cosa esclusivamente “nomine proprio”, vantando per sè il diritto corrispondente al possesso in contrapposizione con quello del titolare della cosa (v., ex multis, Cass. n. 5487/2002; Cass. n. 12968/2006 e Cass. n. 1296/2010), precisandosi, perciò, in particolare, che l’interversione nel possesso non può aver luogo mediante un semplice atto di volizione interna, ma deve estrinsecarsi in una manifestazione esteriore, dalla quale sia consentito desumere che il detentore abbia cessato d’esercitare il potere di fatto sulla cosa in nome altrui e abbia iniziato ad esercitarlo esclusivamente in nome proprio, con correlata sostituzione al precedente “animus detinendi” dell'”animus rem sibi habendi”; a tal proposito, occorre ulteriormente puntualizzare (cfr. Cass. n. 7337/2002; Cass. n. 12007/2004 e Cass. n. 4404/2006) che tale manifestazione deve essere rivolta specificamente contro il possessore, in maniera che questi sia posto in grado di rendersi conto dell’avvenuto mutamento e quindi tradursi in atti ai quali possa riconoscersi il carattere di una concreta opposizione all’esercizio del possesso da parte sua. A tal fine, quindi, sono inidonei atti che si traducano nell’inottemperanza alle pattuizioni in forza delle quali la detenzione era stata costituita (verificandosi in questo caso una ordinaria ipotesi di inadempimento contrattuale) ovvero si traducano in meri atti di esercizio del possesso (verificandosi in tal caso una ipotesi di abuso della situazione di vantaggio determinata dalla materiale disponibilità del bene).

Per tutte le spiegate argomentazioni e risolvendosi, in fondo, la censura nella sollecitazione a rivalutare gli apprezzamenti di merito già adeguatamente svolti dalla Corte di appello, essa non merita accoglimento (v. Cass. n. 1410/2010 e, da ultimo, Cass. n. 356/2017, ord.).

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