Amministrazione di sostegno: sì al matrimonio

Cass. Civ. 11-05-2017, n. 11536

il divieto di contrarre matrimonio, previsto dall’art. 85 c.c. per l’interdetto, non trova generale applicazione nei confronti del beneficiario dell’amministrazione di sostegno. Tuttavia, il divieto può essere disposto dal giudice tutelare, ma solo in circostanze di eccezionale gravità, quando sia conforme all’interesse dell’amministrato.

In generale, questa Corte ha già avuto modo di affermare che l’amministrazione di sostegno ha la finalità di offrire a chi si trovi nell’impossibilità, anche parziale o temporanea, di provvedere ai propri interessi uno strumento di assistenza che ne sacrifichi nella minor misura possibile la capacità di agire, distinguendosi, con tale specifica funzione, dagli altri istituti a tutela degli incapaci, quali l’interdizione e l’inabilitazione, non soppressi, ma solo modificati dalla stessa legge attraverso la novellazione degli artt. 414 e 427 c.c..

Rispetto ai predetti istituti, l’ambito di applicazione dell’amministrazione di sostegno va individuato con riguardo non già al diverso, e meno intenso, grado di infermità o di impossibilità di attendere ai propri interessi del soggetto carente di autonomia, ma alla maggiore idoneità di tale strumento ad adeguarsi alle esigenze di detto soggetto, in relazione alla sua flessibilità ed alla maggiore agilità della relativa procedura applicativa (Cass. 1^ marzo 2010, n. 4866; Cass. 26 ottobre 2011, n. 22332: decisioni citate dalla stessa Corte di merito, la quale non ne ha però apprezzato il significato e tratte le dovute conclusioni). In breve l’amministrazione di sostegno è in tal modo posta allo scopo di superare l’impianto ottocentesco che guardava all’infermo di mente quale soggetto sottoposto ad uno speciale ed inflessibile regime giuridico, ed al rapporto capacità-incapacità, se così si può dire, in una ineludibile alternativa pieno-vuoto, attraverso l’impiego di uno strumento duttile, idoneo a graduare caso per caso le misure di tutela di volta in volta più adeguate in relazione alla concreta disabilità, così da valorizzare – non tanto l’esigenza di salvaguardia del suo patrimonio, per lo più nell’interesse della cerchia familiare, bensì – le residue capacità del soggetto debole. Sicchè i due istituti, l’uno diretto all’incapacitazione, l’altro al sostegno, ossia alla protezione di quei barlumi di capacità, quali che siano, non compromessi, lungi dal caratterizzarsi per l’analogia dell’uno con l’altro, si collocano su piani totalmente diversi.

Già il principio sopra rammentato, affermato da questa Corte, mostra che una generalizzata applicazione delle limitazioni dettate per l’interdetto, per via di analogia, al beneficiario dell’amministrazione di sostegno è senz’altro da escludere. Il che trova poi espressa conferma nella previsione dell’art. 411 c.c., u.c., il quale consente al giudice tutelare di disporre che determinati effetti, limitazioni o decadenze, previsti da disposizioni di legge per l’interdetto o l’inabilitato, si estendano al beneficiario dell’amministrazione di sostegno, avuto riguardo all’interesse del medesimo ed a quello tutelato dalle predette disposizioni: norma la quale dimostra che detta estensione può trovare esclusivo fondamento in un individualizzato provvedimento del giudice tutelare, misurato sull’interesse dello stesso beneficiario dell’amministrazione di sostegno (non certo di terzi, quali i portatori di interessi legittimi cui si riferisce l’art. 119 c.c.), avuto riguardo all’interesse tutelato dalle norme di volta in volta applicate.

Orbene, osserva la Corte, parte della dottrina ha in radice escluso che possa estendersi al beneficiario dell’amministrazione di sostegno, sia pure attraverso un apposito provvedimento del giudice tutelare, il divieto di contrarre matrimonio stabilito per l’interdetto per infermità di mente. Si è in proposito difatti affermato che il beneficiario dell’amministrazione di sostegno può compiere gli atti personalissimi in generale, neppure potendosi far salva l’utilizzazione, da parte del giudice tutelare, del potere di estendere al riguardo le limitazioni dettate per l’interdetto (oltre all’art. 85 c.c., vale rammentare per il testamento l’art. 591 c.c., comma 1, n. 2) ai sensi del citato articolo 411, ultimo comma, c.c., il che – si dice – ricondurrebbe l’amministrazione di sostegno all’alternativa capacità-incapacità che la normativa introdotta nel 2004 ha inteso viceversa superare.

Considerata la coesistenza nell’ordinamento dell’amministrazione di sostegno e dell’interdizione e inabilitazione, e considerato altresì che il legislatore, intervenendo nella materia, non ha ritenuto di modificare l’art. 85 c.c., (norma, peraltro, che la dottrina prevalente, anche sulla base di considerazioni di taglio comparatistico, considera non più attuale anche nei confronti degli stessi interdetti), è stato ritenuto che il divieto di contrarre matrimonio possa essere imposto soltanto per via di interdizione. Tanto più, come pure è stato osservato, che la regola in materia matrimoniale è quella della incoercibile libertà di contrarre matrimonio, sicchè essa non può subire limitazioni, come tali intollerabili, se non nei casi tassativamente previsti dalla legge.

In definitiva, il divieto previsto dall’art. 85 c.c., non si applicherebbe mai, secondo quest’orientamento, al beneficiario dell’amministrazione di sostegno e, anzi, questi conserverebbe in ogni caso il diritto di contrarre matrimonio: sicchè, ovviamente, sarebbe recisamente da escludere una invalidazione del matrimonio operata ex post attraverso l’art. 119 c.c..

Ritiene viceversa la Corte, secondo quanto pure sostenuto in dottrina, che il fuoco puntato sul best interest dell’amministrato non consenta a priori di escludere che, in circostanze particolarmente stringenti, diremmo eccezionalmente gravi, il divieto possa essere imposto: se, come stabilisce l’art. 411 c.c., u.c., ciò sia conforme all’interesse dell’amministrato, alla luce dell’interesse protetto dalla norma, con l’estremo sacrificio della libertà matrimoniale.

Tale lettura pare meglio armonizzarsi con la ratio che sostiene la legge sull’amministrazione di sostegno, la quale non soltanto relega l’interdizione al rango di strumento residuale, ma consente la nomina dell’amministratore di sostegno anche in situazioni talmente gravi da giustificare in astratto il ricorso all’interdizione, qualora ciò consenta di rispondere adeguatamente alle esigenze di protezione del beneficiario. L’opposta soluzione, difatti, darebbe luogo alla configurazione di un caso in cui il ricorso all’amministrazione di sostegno è in se stessa preclusa, e si rende necessaria l’interdizione.

Nondimeno, rimane da escludere che, finanche in presenza di un provvedimento del giudice tutelare che abbia imposto all’amministrato il divieto di contrarre matrimonio, questo possa poi essere impugnato ai sensi dell’art. 119 c.c.. Anzitutto, un’impugnazione ad opera del tutore ai sensi dell’art. 119 c.c., non è pensabile in caso di amministrazione di sostegno per l’ovvia considerazione che manca in tal caso per definizione la sua nomina. Per il resto l’art. 119 c.c., è posto a tutela per un verso di un interesse pubblicistico, come è testimoniato dalla legittimazione del Pubblico Ministero, per altro verso dell’interesse di terzi estranei all’interdetto, cui la norma si riferisce: previsione, quest’ultima, la quale, come è stato sostenuto, può in concreto ridondare in pregiudizio dell’incapace anzichè rappresentare una rafforzata tutela della persona.

Ma, se il divieto di contrarre matrimonio può essere imposto al beneficiario di amministrazione di sostegno solo nel suo proprio interesse, è del tutto ovvio che il matrimonio contratto in violazione del divieto non possa essere poi invalidato se non in funzione della soddisfazione del suo stesso interesse e non di quello all’astratta osservanza del provvedimento giudiziale di divieto, ovvero, tantomeno, dell’interesse di terzi. E dunque – venendo alla vicenda in discorso – è a maggior ragione da escludere che i terzi possano impugnare il matrimonio ai sensi dell’art. 119 c.c., nei confronti del destinatario dell’amministrazione di sostegno, in assenza – come in questo caso – di un divieto di matrimonio adottato dal giudice tutelare.

Il che, tuttavia, non vuol dire – sebbene non sia questo il caso che ci occupa – che l’eventuale divieto di contrarre matrimonio imposto dal giudice tutelare nell’esercizio dei suoi poteri, ai sensi dell’art. 411 c.c., u.c., possa essere impunemente violato dal beneficiario dell’amministrazione di sostegno, soccorrendo in tal caso, oltre all’impugnazione di cui all’art. 120 c.c., l’azione di annullamento ad opera dell’amministratore di sostegno, secondo la previsione dell’art. 412 c.c., comma 2.

image_printStampa